Quando si parla di spie, la maggior parte del pubblico penserà probabilmente agli anni della Guerra Fredda. Qualcuno risalirà con la memoria fino a Mata Hari, fucilata dai francesi un secolo fa. In verità le prime tracce di agenti segreti nella Storia risalgono a circa tremilacinquecento anni fa in Medio Oriente, mentre nel VI secolo avanti Cristo il cinese Sun-tzu ne classificava ben cinque categorie diverse nel suo trattato L’arte della guerra. Furono però i britannici dell’epoca elisabettiana i primi a fissare le regole del Grande Gioco, mentre i francesi dovettero attendere l’età napoleonica per poter fare loro concorrenza.
A metà dell’Ottocento, tuttavia, le grandi potenze avevano a disposizione ognuna il proprio servizio segreto. Quindi non deve stupire che l’Italia – all’epoca ancora «solo un’espressione geografica», per citare Metternich – fosse un crocevia di spie i cui obiettivi non erano solo raccogliere informazioni su eserciti e piani di battaglia, ma anche intervenire attivamente per modificare il corso degli eventi. Com’era inevitabile per una terra divisa tra i Savoia, il Papa, gli Asburgo e i Borboni, oggetto anche degli interessi dell’Impero Britannico.
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Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, economia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Brera ci ha provato.