Parigi 14 giugno 1940
È l’alba, nel cielo plumbeo corrono cumuli di nuvole gravide di pioggia. È l’inizio dell’estate, ma sembra una triste giornata d’autunno.
Una brezza fredda e leggera scuote le chiome degli alberi provocando un sommesso brusio simile a voci che si perdono nel vento.
È il solo rumore, oltre al ronfare del grosso bicilindrico BMW.
Gelide gocce di pioggia ticchettano sull’elmo d’acciaio, scivolano sulla nera superficie, si intrufolano dentro il giaccone di cuoio, inzuppano il colletto della camicia e scorrono lungo la spina dorsale.
Una sensazione sgradevole alla quale Ulrich Schneider da tempo non fa più caso, fin da quando nel 1938 è entrato a far parte delle SS.
Pensare che da ragazzo voleva fare il giornalista.
È nato a Monaco di Baviera, nel 1912, in una famiglia piccolo borghese.
Il padre, Gustav, vanta il doppio titolo di maestro di scuola e tenente della riserva. Durante la prima guerra mondiale ha combattuto nel secondo reggimento della riserva bavarese, guidato dal generale von Dittelberger ed è stato ferito, nella primavera del 1918, nel corso della quarta battaglia di Ypres.
Gustav Schneider è un uomo tutto d’un pezzo, al marasma seguito alla fine della guerra ha preferito l’ordine promesso da Adolf Hitler, l’uomo, come dice lui, che ha ripulito la Germania dai politicanti traditori della Patria.
Nel 1930 il giovane Ulrich era già iscritto alle formazioni giovanili dello Stahlhelm-Bund der Frontsoldaten (Lega soldati combattenti dell’Elmo d’acciaio), l’organizzazione paramilitare di cui faceva parte suo padre. Tuttavia all’epoca la politica non lo interessava più di tanto.
Era un ragazzo serio, studioso, un po’ chiuso, che andava alle parate perché comandato dal padre.
Ai comizi e alle scazzottate tra opposte fazioni preferiva il teatro, la poesia, la letteratura e la storia.
Dopo avere compiuto studi letterari di storia e filosofia a Lipsia, il giovane Ulrich sognava di diventare Herr Doktor: la carriera universitaria, la cattedra in qualche prestigioso istituto, ma il neonato Terzo Reich aveva bisogno più di militari che di professori.
Nel 1933 gli Elmi d’acciaio confluirono in massa nelle SA.
Tra i 3 milioni di camicie brune di Röhm che sognavano la rivoluzione proletaria nazionalsocialista promessa da Hitler prima del suo insediamento alla Cancelleria, Ulrich era soltanto uno dei tanti.
Nessuno andò a cercarlo quando i plotoni delle SS falciarono, su ordine di Hitler, i vertici delle SA accusati di alto tradimento.
Viveva una tranquilla vita da studente. Gli piaceva leggere, scrivere, qualche volta amoreggiare.
Era un giovanotto dall’aspetto tipicamente tedesco: biondo, occhi azzurri, un fisico prestante, la bocca amara, con uno sguardo perduto nel sogno e che s’offuscava bruscamente in una terribile durezza.
Oltre allo studio della storia, l’altra passione era lo sport.
Eccelleva nelle discipline ginniche, ciò gli permise di farsi ben volere dai gerarchi del regime:
«I giochi sportivi» dicevano «preparano a quelli di guerra».
Ai Giochi, quelli veri, assistette nel 1936.
Ricordava ancora l’emozione che aveva provato quando i marinai, in uniforme estiva della nuova marina da guerra del Reich, avevano issato la bandiera bianca coi sei anelli sopra la vasca su cui bruciava la fiamma olimpica.
Scrisse un pezzo “ispirato” sullo Studentenpress, un giornalino studentesco che dipendeva direttamente dal Ministero della Cultura.
Qualcuno nelle “segrete stanze” lo lesse e gli propose di entrare, dopo avere conseguito nel 1938 il dottorato in storia e filosofia, nel DNB (Deutsches Nachrichten-Büro) l’agenzia di stampa del Terzo Reich. Giornalista a 26 anni, non si occupava ancora di politica. Per il DNB si limitava a scrivere articoli che esaltavano le vittorie ottenute dai giovani del Terzo Reich in tutte le discipline sportive.
Un giorno nel suo ufficio si presentò un giovanotto poco più grande di lui.
Ricordava bene quel breve colloquio. Disse di chiamarsi Franz Six, professore di filosofia.
Alto, ben piantato, aveva una bocca a lama di coltello che gli conferiva una espressione energica.
Indossava un elegante completo grigio, ma se non fosse stato per i fini occhiali a montatura metallica che gli tagliavano il viso, lo si sarebbe detto un militare.
Six era a conoscenza della sua tesi su Joseph Fouché (1759-1820), controverso personaggio di uno dei periodi più sanguinari della storia francese: boia di Lione durante il Terrore, capo della polizia segreta, prima del Direttorio e poi di Napoleone.
Fouché rivoluzionò i metodi investigativi. Creò una rete di informatori capaci di scovare ovunque i nemici del despota di turno. Fu talmente abile che i diversi regimi che si succedettero in Francia lo confermarono in carica.
Six fu subito chiaro e diretto, non era un semplice professore, ma il responsabile dell’ufficio stampa del SD.
«L’SD (polizia segreta di sicurezza SS)» gli disse «ha bisogno di gente come te».
«Ma io non sono una SS» aveva obiettato.
«Niente paura, lo diventerai».
La settimana dopo entrò in una Junkerschule, scuola dei quadri delle SS.
Non era più il reporter che sognava una brillante carriera giornalistica, ma il giovane leone che già fiutava l’odore del sangue.
Non ebbe più alcun dubbio, la Germania era in marcia e nessuno poteva fermarla, lui voleva essere della partita.