Monti del Tirolo, inverno 1946
Pioveva. Una pioggia gelida. Le gocce d’acqua sembravano aghi. Penetravano nel cotone del saio e trafiggevano la carne come punture d’insetti.
Il cappuccio calato sugli occhi non lo proteggeva più.
La salita si fece impervia. E la vecchia bici, un modello d’anteguerra, sempre più pesante.
Calcare i sandali sui pedali non serviva a dissipare il freddo.
Le gambe, nude sino al ginocchio, si intirizzirono. E coi calzettoni di lana zuppi d’acqua temeva che le dita dei piedi, da un momento all’altro, perdessero sensibilità.
Ma che almeno non nevichi – pensò stremato.
La cappella non doveva essere lontana. Era partito a tarda sera dal convento giù nella valle per raggiungere la chiesetta in cima alla montagna.
Ricordò le allegre brigate di ragazzi e ragazze che si riunivano lì, tutti gli anni, prima della guerra, per la festa dei narcisi di primavera.
Un manto candido e profumato copriva allora i fianchi dei monti.
Si cantava, si ballava, si mangiava, si beveva e si faceva l’amore. Anche se lui, a quell’ultima “cosa”, non poteva pensare.
Com’era difficile, a vent’anni, rinunciare ai piaceri della carne! Martirizzarsi col silicio aiutava. Ma non sempre bastava.
I narcisi continuavano a spuntare, ma nessuno li raccoglieva più.
E i ragazzi?
Chissà che fine avevano fatto. No, non quelli tornati a casa, gli altri: forse dispersi in Russia, o sepolti in una tomba senza nome in Africa. O appesi a una corda come banditen.
Chissà.
Rispetto a loro si sentiva fortunato: uno zio prete gli aveva evitato il fronte “infilandolo” in un convento. Tempi duri certo, di lutti e privazioni sì, ma almeno se l’era cavata.
Ora, a guerra finita, da alcuni giorni accarezzava l’idea di gettare il saio alle ortiche. Decisamente, la vita monastica non faceva per lui.
Quando il padre superiore l’aveva chiamato per la solita consegna, era stato sul punto di dirgli di no. Di dirgli che se ne andava. Ma quell’omone dalla lunga barba bianca e dalla voce tonante gli incuteva ancora timore. Così, come accadeva ormai da mesi, la sera aveva inforcato la bicicletta per salire lassù, nonostante un tempo da lupi, portando con sé una grossa busta marrone, avvolta in un cellophan per proteggerla dall’umidità. E celata sotto al saio, nella cintola dei mutandoni di lana.
Speriamo di non dovere attendere troppo – rimuginò, mentre spingeva, con una mano paonazza, il battente in legno della chiesetta.
Entrò.
Tastando nel buio, cercò nella nicchia accanto alla porta i fiammiferi e la vecchia lampada ad olio.
L’accese. Filò rapidamente verso il piccolo altare al centro della cappella. Aprì il tabernacolo. E vi nascose la busta marrone.
Poi si accucciò sopra un banco stringendo la lampada tra le cosce per recuperare un po’ di tepore. Ma, vinto dal freddo e dalla stanchezza, si appisolò, lasciando che la testa ciondolasse sul petto.
Sognò di correre ancora tra i prati di narcisi: una ragazza dai capelli lunghi color del grano, coperta da un leggero vestitino a fiori, sgambettava nell’erba a piedi nudi e ogni tanto si voltava per sorridergli. Allungò una mano per prenderla. L’afferrò, lei scivolò tra le braccia. La strinse. Cercò di baciarla. Le labbra somigliavano a ciliegie mature.
Ma all’improvviso il suo viso si trasformò nel muso arcigno del padre superiore. Le manone del frate, grandi come badili, lo respingevano con violenza…
Si destò di soprassalto: qualcuno lo stava scuotendo per le spalle, provocandogli un sordo, lancinante, dolore nelle giunture rattrappite dal freddo.
«Svegliati maledetto!» sibilò una voce tagliente.
Sobbalzò. E spalancò gli occhi. La lampada dondolò pericolosamente verso terra. Ma l’uomo che lo artigliava fu lesto ad acciuffarla un attimo prima che cadesse rovinosamente.
Era un tizio biondo, alto, la mascella quadrata. Gli occhi lampeggianti furore. E le mani guantate che gli sventolavano sotto il naso la lampada appena salvata: «Idiota! Potevi mandare a fuoco tutto. Dove sono i documenti?»
«Ve li prendo subito signore. Scusate ma…»
«Poche ciance» tagliò corto il biondo «non abbiamo tempo da perdere».
Il novizio si affrettò. Aprì il tabernacolo e consegnò la busta.
L’altro la palpò rapidamente, come se volesse accertarsi del contenuto, per poi infilarla nella tasca del pastrano in cuoio nero. Girò sui tacchi.
E, senza profferire parola, raggiunse a passo svelto l’uscita.
Fu allora che il novizio intravide nella penombra la figura di una seconda persona. Piccola e tarchiata, con un cappotto di cuoio nero, lungo fino ai piedi.
Il bavero di pelliccia rialzato e un cappellaccio scuro ne nascondevano il volto.
Il biondo spalancò la porta. Fuori, la pioggia si era trasformata in una tormenta di neve.
Tenne aperto il battente facendo cenno allo sconosciuto di uscire.
Mentre questi si accingeva a varcare la soglia, una folata di vento gelido scagliò via il cappellaccio, che rotolò verso l’altare.
Il novizio s’inginocchiò. Lo acciuffò. Alzò il capo sorridendo, felice di essersi reso utile.
Ma il sorriso morì sulle labbra. Fece appena in tempo a scorgerne la faccia, che una mano d’acciaio lo sollevò di peso.
Un pugnale affondò nel fianco.
E lui si afflosciò come un sacco vuoto.
Il biondo lasciò scivolare il cadavere. Estrasse la lama. E senza degnare di uno sguardo il Cristo in croce che lo osservava dall’altare, con un lembo del saio del frate ripulì il pugnale, per poi riporlo nel fodero sotto al pastrano.
Recuperò il cappellaccio da terra e lo porse allo sconosciuto: «Dobbiamo affrettarci, abbiamo perso troppo tempo».
L’altro annuì, calò il cappellaccio sugli occhi, alzò il bavero di pelliccia. E uscì nella tormenta.
Il biondo spense la lanterna.
E lo seguì.