«Stavamo tutti in silenzio. Tutti ascoltavano e poi qualcuno disse: è ora! La porta si aprì e vidi Hitler ed Eva. Lei giaceva sul divano. Ricordo quell’immagine ancora oggi». È l’ultima testimonianza rilasciata in ordine di tempo da Rochus Misch, la guardia del corpo di Hitler, l’unico testimone oculare ancora vivente di quanto accadde quel giorno. Una ulteriore conferma della tesi, fatta propria dalla storiografia ufficiale, che Hitler si suicidò nel Führerbunker terrorizzato di cadere in mano a Stalin e fare una ben più orribile fine. La testimonianza del tutto spontanea di Misch dovrebbe mettere una volta per tutte la parola fine alla ridda d’ipotesi, voci e supposizioni che hanno circondato la presunta morte di Hitler.
Diciamo presunta perché, nonostante la caterva di prove che dimostrerebbero il suo suicidio, ulteriori recenti scoperte, anziché dipanare la matassa, come molti si aspettavano e auguravano, la ingarbugliano ulteriormente dando fiato a quei ricercatori di frontiera che propendono invece per la tesi che Hitler, come altri suoi gerarchi, sia riuscito a sottrarsi alla cattura e a trovare rifugio negli ospitali Stati sudamericani.
A dare origine a ogni genere di speculazione sulla fine del dittatore fu in primo luogo Stalin che ordinò di avvolgere l’intera vicenda in una cappa di assoluta segretezza impedendo ogni possibile
inchiesta da parte degli Alleati. Ebbene, proprio nella Russia post-comunista è emersa una scioccate prova che metterebbe in discussione la morte di Hitler e il voluminoso dossier che i servizi segreti sovietici negli anni del disgelo, dopo la morte di Stalin, acconsentirono di fare visionare ad alcuni “graditi” storici occidentali.
Elementi principali che comprovavano la morte di Hitler erano i reperti conservati alla Lubianka, la sede del KGB. Il frammento più prezioso era rappresentato dalla parte superiore della scatola cranica del dittatore. Gli esami a cui era stata sottoposta avevano appurato che Hitler, per essere certo di morire, oltre ad avere ingerito del veleno si era anche sparato. Il ben visibile foro di uscita del proiettile fu esaminato anche da esperti forensi occidentali che confermarono quanto sostenuto dai colleghi russi. Il KGB impedì però che fossero prelevati campioni per ulteriori analisi in laboratori occidentali.
Solo recentemente una équipe di studiosi guidati dall’archeologo Nick Bellantoni, dopo una infinità di peripezie burocratiche, ha avuto l’autorizzazione a esaminare il dossier e i reperti, ora conservati nell’archivio di stato russo. La spedizione è stata oggetto di un ricco e approfondito reportage di History Channel.
Anche se la vecchia Unione Sovietica non esiste più i suoi metodi stile KGB sono ben lungi dall’essere scomparsi del tutto. Al dottor Bellantoni è stato concesso un ridottissimo lasso di tempo per condurre la sua inchiesta, in compenso però gli è stato permesso di prelevare alcuni campioni
per sottoporli a ulteriori esami di laboratorio.
I test sul DNA hanno riservato un risultato sconvolgente: il cranio così gelosamente conservato dai sovietici prima e dai russi poi, la prova di tutte le prove del suicidio di Hitler, non è del dittatore, ma di una giovane donna: c’è di che riscrivere la storia.